Accadde Oggi. 26 gennaio 1967 muore a Sanremo Luigi Tenco e la Rai tira fuori un video
Dopo 50 anni si discute ancora del misterioso suicidio di Luigi Tenco, un poeta intimista, felice di esistere. Spunta un filmato dagli archivi Rai, diffuso sul sito di Rai Cultura.
di Tiziana Pavone
SANREMO. Era nato il 21 marzo 1938. Aveva 28 anni, il cantautore Luigi Tenco, quando fu trovato per terra morto, all’Hotel Savoy di Sanremo, nell’ormai lontano 1967. La sua stanza divenne sfortunatamente famosa, la numero 219. E anche il sontuoso Hotel, che divenne così una obbligata tappa turistica per cronisti festivalieri di ieri. Oggi quella stanza non esiste più: l’hotel dopo anni di chiusura, è stato ristrutturato e convertito in residence. Quella notte tra il 26 e il 27 gennaio tuonò un colpo di pistola che nessuno sentì. Si accorsero della tragedia Dalida, appena tornata dalla cena al ristorante Nostromo, nei pressi del Casino, e il collega Lucio Dalla, altro concorrente del Festival di quell’anno, suo vicino di stanza. Quest’ultimo non volle mai parlare nemmeno agli amici, di quella sera: per decenni ne rimase scioccato. Vicino al corpo fu trovato il famoso biglietto di accuse al mondo musicale, che Dalida trattenne con sé fino all’arrivo degli inquirenti, i quali immaginarono un suicidio firmato. Le indagini furono molto discusse perché abbastanza misteriose (il corpo fu portato subito all’obitorio e poi riposizionato sul luogo per permettere ai fotografi di fare le foto; non si diede importanza a tracce di sabbia, all’arma, alle minacce di morte) e ancora oggi c’è chi ha forti dubbi sul suicido, pensando piuttosto a un crimine indicibile (per il quale furono riaperte indagini nel 2005, sfortunatamente dopo l’omicidio accaduto al commissario Molinari, supertestimone per essersi occupato del caso)
Nessuno poteva immaginare una tale scena del crimine, a poche ore dalla sua ultima esibizione, da quel suo dispiacere di essersi imbattuto in un sistema giudicante incapace di capirlo. Luigi Tenco forse stava patendo il fatto di non essere stato trattato come un Paese deve fare con i suoi poeti. Arrivò dodicesimo, mancando la finale e lo seppe quasi sopito su un biliardo, come raccontano le cronache, dopo aver avuto bisogno di un pò di alcool per allentare la tensione dell’esibizione. Il Festival di Sanremo era ancora al Salone delle Feste del Casino, dove ora ci sono le slot machine. Ma era già il festival più famoso. C’erano grandi tavoli per le cene eleganti e borghesi del pubblico pagante. C’era il palcoscenico, ripreso dalla televisione in bianco e nero, che radunava intere comitive di spettatori e tifoserie. Era lì, dove le voci erano ancora importanti più dei personaggi, che tra i giganti interpreti della canzone popolare, si era affacciato anche lui, Luigi, per dare voce all’ interpretazione maschile di “Ciao amore ciao” (la voce femminile era quella di Dalida). Una canzone sociale, delicata come una poesia, parlava della generazione post bellica, pronta a lasciare la terra per andare a vivere in città, vorrebbe far breccia nei cuori degli italiani. Ma i cantautori “tristi”, realisti, impegnati, intellettuali, con lo sguardo attento al sociale, all’epoca in cui gli americani avevano già Bob Dylan, gli inglesi i Beatles, non andavano troppo di moda, nell’Italia che doveva spingere sul boom economico e finire di alfabetizzarsi tra parrucche, frigoriferi e minigonne. Tanto che il movimento dei cantautori fu adottato dall’imprenditore floricolo Amilcare Rambaldi, che inventò a Sanremo il Premio Tenco per dare loro un palcoscenico apripista, qualche anno dopo. Erano già gli anni ’70, gli anni dell’autostop facile, dei pantaloni a zampa di elefante, dei capelloni, dei primi musical importati dall’estero. L’Italia era invece conosciuta per l’Opera, impossibilitata a esportare il nuovo linguaggio dei menestrelli e dei poeti maledetti, che pure hanno attraversato l’Europa e destato l’interesse di artisti d’oltreoceano di quell’epoca e appunto, di qualche cantautore nostrano, in primis il genovese Fabrizio De Andrè. Voci solitarie per canzoni da leggere, apprezzate da una certa borghesia intellettuale per decenni, prima di essere sdoganate a livello popolare.